Immaginatevi di essere un tranquillo 60enne residente in Cornovaglia, che gestisce un pub insieme alla moglie da circa vent’anni. Supponiamo che, una mattina, nella cassetta della posta troviate una lettera della rivista Vogue: probabilmente pensereste a una proposta di abbonamento, ma come reagireste se, al contrario, vi trovaste a leggere una intimazione a cambiare il nome del vostro locale?
È quanto accaduto a Mark Graham nelle scorse settimane, reo (secondo la arcinota rivista modaiola) di aver affisso sulle mura del suo pub l’insegna “Star Inn at Vogue”, dove però la parola Vogue non sta a indicare altro se non il piccolo paese che fa da cornice al succitato pub, situato nel Sud-Ovest dell’Inghilterra, non lontano da Plymouth.
Una piccola comunità che risiede in questa zona da centinaia di anni, ma che deve essere sfuggita alle ricerche dello staff di Sabine Vandenbroucke, Chief Operating Officer di Conde Nast (editore della famosa rivista patinata) e firmataria della lettera. “La nostra azienda è proprietaria del marchio Vogue – spiega la COO nella sua epistola indirizzata all’ignaro gestore -, non solo per la sua rivista di fama mondiale, pubblicata per la prima volta nel novembre 1916, ma anche per altri beni e servizi offerti al pubblico dalla nostra azienda”. Una missiva con la quale Vogue chiedeva delucidazioni sul tipo di attività commerciale svolta all’interno del pub, oltre a informazioni su qualsivoglia immagine utilizzata dal signor Graham tra quelle mura, per essere sicuri che non potesse sussistere un rischio per il grande pubblico di confondere le due attività.
“Del resto, chi non conosce il marchio Vogue? Impossibile – chiarisce Valentina Gazzarri, avvocato e membro del Bugnion Adv legal team -: non fosse altro che per la notorietà della direttrice dell’edizione statunitense Anna Wintour, che secondo molti sarebbe la vera fonte di ispirazione per il personaggio di Miranda Priestly nella famosa pellicola Il diavolo veste Prada”.
Sebbene, a onor del vero, sembra che la lettera di diffida inviata dal periodico fashion fosse ben lontana dai toni aspri e minacciosi tipici del personaggio interpretato da Maryl Streep: “Stando a quanto veicolato dai principali organi di stampa – prosegue infatti Gazzarri – sembra che la missiva avesse toni piuttosto conciliatori, chiedendo semplicemente al gestore di chiarire il tipo di attività svolta, nonostante tra le richieste ci fosse anche quella di valutare se fosse disponibile a modificare il nome del suo pub, eliminando il termine Vogue per evitare l’insorgere di possibili interferenze e fraintendimenti”.
Una richiesta a cui il vivace signor Graham ha risposto con una lettera altrettanto completa, allegando diverse fotografie di locali e vie che riportavano il nome del villaggio in questione, e chiarendo di non essere in alcun modo disposto a cambiare il nome del proprio locale: “Vogue è il nome del nostro villaggio – ha infatti rilanciato -, che esiste da centinaia di anni. Noto che la vostra rivista è nata solo nel 1916 e presumo che all’epoca in cui avete scelto il nome Vogue non abbiate chiesto il permesso ai paesani della vera Vogue. Siete liberi di usare la versione senza il nostro permesso – ha concluso con ironia – ma per rispondere alla vostra domanda sul cambiare il nostro nome, ribadisco un No categorico».
E del resto anche la legge sembra dare ragione al gestore: “Non si può trascurare né che la parola “Vogue” è in posizione secondaria rispetto alla dicitura “STAR INN” – chiarisce Valentina Gazzarri -, né soprattutto che il termine è utilizzato in funzione descrittiva. Vogue infatti, nel caso specifico, è il nome di un piccolo villaggio in Cornovaglia, la cui fondazione risale sicuramente a un periodo antecedente a quello della omonima rivista (1916). Ecco perché, con tutta probabilità, sarebbe bastato fare una ricerca più approfondita per evitare l’insorgere di un caso”.