Articolo pubblicato in Bugnion News n.44 (Luglio 2020) – Ascolta la versione Audio
In molti diranno, “Ecco, ci risiamo, il solito articolo di qualche bacchettona femminista”.
Forse, invece, sarebbe opportuno domandarsi perché, ancora una volta, qualcuno scrive di rispetto della donna, addirittura associando questo tema ad un mondo apparentemente così distante come la proprietà industriale e la pubblicità.
Innanzitutto, perché ad avviso della scrivente, di questo topic non si parla mai abbastanza e almeno fino a quando non si vedranno dei risultati tangibili nelle condotte della cittadinanza, io sarò qui a parlarne.
Secondariamente, perché proprietà industriale e pubblicità sono sinonimi di comunicazione. Sono la sineddoche di “messaggio” ed ogni messaggio veicolato in una società civile deve essere rispettoso dei sentimenti di tutti i suoi destinatari.
Pertanto, smettiamo di parlare di femminismo ed iniziamo a parlare di senso civico!
Orbene, in questo panorama di presa di coscienza di ciò che è giusto e sbagliato, le normative in tema di proprietà industriale ci vengono in soccorso. In particolare, l’articolo 14, lettera a) del C.p.i. recita: “Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa: i segni contrari [alla legge, all’ordine pubblico o] al buon costume […]”. Analoga previsione è sancita dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento sul Marchio dell’Unione Europea n. 2017/1001.
La ratio alla base delle disposizioni sopra richiamate è quella di precludere la registrazione dei marchi qualora la concessione del relativo monopolio sia percepita dal pubblico di riferimento come direttamente contraria alle norme morali fondamentali della società.
Analizziamo qui di seguito una recente pronuncia dell’EUIPO che ci fornisce dei parametri interessanti per valutare quando un marchio trasgredisca le regole del buon costume.
Così, l’EUIPO, nella decisione n. R-018073336 del 12.09.2019 ha rigettato la registrazione del marchio “HOOR” che, in lingua estone, indica in modo offensivo e dispregiativo il termine “prostituta”. Eccoci di fronte alla infelice trasposizione di uno stereotipo di genere a livello commerciale.
L’EUIPO ha individuato nel pubblico estone una parte importante dei consumatori medi dell’Unione Europea ed ha precisato che quando un segno è particolarmente scioccante come quello in questione, lo è a prescindere dal tipo di prodotti per cui è stato registrato. Addirittura, il fatto che il marchio copra prodotti di largo consumo come l’abbigliamento o i relativi accessori, non fa altro che aumentare la sua esposizione ai consumatori, tra l’altro, rivolgendosi soprattutto a quel pubblico femminile a cui inequivocabilmente e tristemente il termine HOOR fa riferimento.
Tale marchio è stato considerato quindi offensivo non solo per i cittadini estoni, ma altresì per qualsiasi cittadino europeo con un normale livello di sensibilità e tolleranza.
Inoltre, tanto per dare del colore a questo procedimento già di per sé avvilente, si segnala che il richiedente ha eccepito che la sensibilità sociale attuale si è evoluta a tal punto da rendere accettabili espressioni che solo venti anni fa erano considerate immorali.
Ci saremo anche evoluti, ma il rispetto non è ancora passato di moda e, per fortuna, ci siamo mossi nella direzione dell’ormai noto movimento #metoo a tutela delle donne, contro abusi di ogni genere, anche verbali, richiamato dallo stesso EUIPO.
Sulla stessa linea della decisione di cui sopra, richiamiamo la sentenza n.10/10 del 25.02.2010 della Commissione dei Ricorsi, con la quale l’autorità nazionale ha confermato il rigetto da parte dell’UIBM della domanda di registrazione per il marchio “PUTTANOPOLY”.
In particolare, la Commissione dei Ricorsi ha deciso di censurare il tentativo del richiedente di rendere normale, quale elemento di un gioco dalle pretese intenzioni educative, “una definizione sociale e subculturale dolorosamente dispregiativa e pertanto crudele” ed ha proseguito stabilendo che “Il buon costume italiano, nella sua evoluzione, accentua oggi, rispetto alla antica oscenità, la ferita alla umanità che la prostituzione ed il suo sfruttamento arrecano alla donna ed alla persona umana, la cui dignità è al centro del sistema giuridico.”
Peraltro, occorre qui puntualizzare che un marchio a cui viene negata la registrazione, può comunque continuare ad essere utilizzato, benché privo della sua iscrizione al Registro Marchi.
Tuttavia, non è infrequente che marchi “oltraggiosi” ed amorali, benché non registrati, siano associati a comunicazioni pubblicitarie altrettanto svilenti in quanto sessisti.
È in questo contesto che può venire in soccorso il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale (più comunemente: Codice di Autodisciplina Pubblicitaria), applicato attraverso l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) tramite il Comitato di Controllo ed il Giurì.
Detta normativa è posta a garanzia di una comunicazione commerciale corretta, affinché venga realizzata come servizio per il pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore. [Per approfondimenti circa la portata di queste disposizioni, i soggetti vincolati al loro rispetto e la loro importanza nella comunicazione commerciale, non esitate a contattare Elena Carpani, Valentina Gazzarri, Silvia Grazioli e Elisabetta Guolo avvocati del team “Advertisting and influencer marketing”]. Attraverso detta normativa, pertanto, si può intervenire per impedire l’uso volgare di un marchio non registrato e, a prescindere da quest’ultimo, la pubblicità illecita a cui un segno è associato.
Gli esempi di pubblicità sessista sono molteplici. Lo IAP, infatti, è intervenuto in numerose occasioni per censurare delle comunicazioni commerciali ritenute volgari, indecenti (articolo 9) o, in generale, non rispettose della dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni, o contenenti discriminazioni (articolo 10).
Purtroppo, gli stereotipi di genere nella pubblicità sono ancora frequenti e, tra questi, citiamo la comunicazione che è stata recente oggetto di ingiunzione da parte del Comitato di Controllo (15 giugno 2020). L’autorità competente ha censurato un messaggio pubblicitario volto a promuovere delle zanzariere, cavalcando, tra l’altro, l’attuale emergenza pandemica. Il messaggio mostrava la seguente scena: una donna riposa in abbigliamento intimo di pizzo nero mentre le sue parti del corpo vengono evidenziate con le seguenti diciture: “Petto”, “Pancetta” e “Coscia”. Proprio sulla coscia è raffigurata una zanzara nell’atto di pungerla, mentre esclama “mmmmh”. In aggiunta, il seguente claim: “Menu Estivo. Finalmente, con la fine dell’emergenza, ha riaperto il miglior ristorante della città: TU! Se ti sei “stufata” di fare da primo, secondo e contorno per zanzare…”.
Secondo il Comitato di Controllo detta comunicazione è da considerarsi in violazione dell’articolo 10 del Codice di Autodisciplina perché “L’eventuale intento ironico della comunicazione viene ampiamente trasceso dalla rappresentazione, che finisce col rendere il corpo femminile, di cui si evidenziano particolari anatomici, oggetto passivo esposto al pubblico, conducendo inevitabilmente alla mercificazione della persona”. L’immagine femminile, in altri termini, è strumentalizzata al solo scopo di attrarre l’attenzione del consumatore.
Anche se in questo caso il marchio delle zanzariere (Genius) non è illegittimo, la pubblicità ad esso associata è stata oggetto di condanna per il proprio contenuto inappropriato, che l’ha resa senza dubbio una comunicazione sessista.
Occorre poi analizzare il caso in cui il marchio venga utilizzato legittimamente dal rispettivo titolare, ma sia invece impiegato illecitamente da soggetti terzi, anche in violazione delle norme di buon costume.
In tal caso, può verificarsi la cosiddetta dilution by tarnishment del marchio: il suo offuscamento da svilimento. La Corte di Giustizia Europea descrive questo fenomeno come il caso in cui l’uso del segno da parte di terzi non autorizzati sia tale da svalutare l’immagine o il prestigio acquisito dal marchio stesso presso il relativo pubblico, sia perché il segno viene riprodotto in un contesto osceno, degradante o inappropriato, sia perché, pur non ricorrendo tali ipotesi, il contesto nel quale viene inserito è semplicemente incompatibile con una particolare immagine che il marchio anteriore ha acquistato agli occhi del pubblico in conseguenza degli sforzi impiegati dal suo titolare per promuoverla (CGUE 18.06.2009, C.187/07, caso L’Oreal).
A tal proposito, richiamiamo la querelle giudiziaria che ha visto protagonista la celebre casa automobilistica Ferrari contro lo stilista Philipp Plein (già trattata ai suoi albori, in fase stragiudiziale, dalla Dott.ssa Sigrid Lily Hulisz https://www.bugnion.eu/it/ferrari-vs-lo-stilista-philipp-plein-sui-social-media/ ).
La vicenda si è sviluppata su due fronti: uno dinanzi al Tribunale di Genova, adito in via cautelare, l’altro dinanzi al Tribunale di Milano, adito per un procedimento di cognizione ordinaria.
Per quello che qui interessa, anticipiamo soltanto che il Tribunale di Milano si è pronunciato limitatamente alla valutazione dell’uso del marchio Ferrari nella sfilata dello stilista Philipp Plein del giugno 2017, poi divulgata via web dallo stesso stilista con funzione di “vanteria”. Tale uso è stato dichiarato illegittimo con sentenza del 03 giugno 2020, configurando la fattispecie di concorrenza sleale.
Invece, il Tribunale di Genova si è pronunciato in merito al ricorso cautelare presentato da Ferrari per la divulgazione sul profilo Instagram di Philipp Plein, sia di un video raffigurante un paio di calzature Money Beast dello stilista sul cofano di una vettura Ferrari 812 Superfast con il relativo logo in evidenza, ma anche e soprattutto di un video raffigurante un cosiddetto car wash, con ragazze in bikini che puliscono autovetture Ferrari sul cui cofano, ancora una volta, sono posizionate le suddette calzature.
In entrambe le fattispecie sopra enunciate, il Tribunale di Genova ha censurato l’indebita associazione al logo Ferrari per finalità commerciali e, conseguentemente, ha ritenuto che da ciò derivi una dilution by tarnishment del marchio di parte attrice.
L’autorità giudicante, oltre a stabilire che l’offuscamento del marchio Ferrari da parte dello stilista pregiudicasse il suo potere di attrazione, ha ritenuto che “il posizionamento sul mercato del marchio Ferrari evochi le caratteristiche — se non della sobrietà — quantomeno dell’esclusività e dell’assenza di volgarità, caratteristiche incompatibili con quelle del video sopra descritto.”
Da quanto sin qui detto emerge in modo evidente che il marchio e la pubblicità sono vettori di messaggi, forme di espressione e valori. Quindi, essi svolgono l’importante ruolo di proporre modelli di comportamento influendo sull’immaginario collettivo. Ne consegue che un messaggio sbagliato può avere ripercussioni non trascurabili per tutta la comunità.
In particolare, la divulgazione dell’immagine di una donna stereotipata può provocare un grande senso di inadeguatezza soprattutto tra le giovani ragazze e la diffusione dell’immagine della donna-oggetto può indurre la collettività a trattarla come tale.
Pertanto, ogni utilizzatore di un marchio o inserzionista deve essere consapevole dell’importanza dei propri mezzi di comunicazione perché ciascuno di essi, a modo suo, contribuisce alla diffusione di una determinata cultura.
Va da sé che è nostro dovere proporre modelli di comunicazione conformi al rispetto della dignità della donna e che evitino esecrabili contenuti degradanti della stessa. Fortunatamente, gli Uffici Marchi, lo IAP e gli organi giuridici competenti stanno lodevolmente contribuendo a diffondere una rappresentazione della donna che vada oltre gli stereotipi femminili e che eviti di pregiudicarne la dignità, dimostrando così di essere al passo con una più evoluta cultura del senso civico.