L’Organizzazione Mondiale della Proprietà intellettuale ha appena pubblicato il rapporto “Indicatori della proprietà intellettuale mondiale 2022” da cui emerge che, nel 2021, a dispetto dell’andamento negativo dell’economia mondiale e delle persistenti difficoltà legate al Covid 19, si è assistito a una fortissima crescita a livello mondiale delle richieste di tutela della Proprietà Intellettuale.
La richiesta di privative industriali, come brevetti, marchi e design è cresciuta globalmente di un +3,6%, grazie al traino dei Paesi asiatici, nei quali i depositi hanno registrato un + 67,6%.
Protagonista assoluta è la Cina con 1,59 milioni di depositi di domande di brevetto domestiche, più del doppio rispetto a quelle degli Stati Unti. Considerando anche le quasi 9,5 milioni di richieste di registrazione di marchio e la posizione di guida nelle classifiche dei design e delle varietà vegetali, la Cina sembra dominare il panorama mondiale della proprietà intellettuale. Per avere un metro di paragone, si consideri che la seconda posizione nei depositi dei marchi è detenuta dagli Stati Uniti con 900.000 richieste, ovvero meno di un decimo delle domande della Repubblica Popolare. La Cina sorpassa gli Stati Uniti anche come numero totale di diritti brevettuali in vigore, che attualmente ammontano a 3,6 milioni.
Tuttavia, una valutazione obiettiva di questi dati impone di considerare che la crescita dei depositi di brevetti in Cina è sostenuta da rilevanti sussidi erogati dal governo, che tra l’altro incentiverebbero i richiedenti a fare depositi multipli per proteggere aspetti simili del medesimo concetto inventivo, oltre a depositare domande di brevetto per soluzioni poco innovative. Se a ciò si aggiunge il fatto che la grande maggioranza delle domande di brevetto cinese è detenuta da operatori domestici e che una percentuale relativamente bassa di esse è estesa in altre giurisdizioni, viene naturale domandarsi se ai numeri da record sopra citati corrisponda anche un valore commerciale proporzionale o se piuttosto la Cina non stia usando la propensione dei suoi cittadini alla richiesta di privative intellettuali per promuoversi come uno dei paesi più innovativi del Mondo o come mezzo di competizione.
Infatti, anche la Proprietà Intellettuale si presta a essere usata come strumento di lawfare, come viene chiamato oggi l’utilizzo di leggi o istituzioni legali ai fini della competizione tra Stati o individui.
Ne sia l’esempio l’abile contromossa attuata da Huawei in risposta agli attacchi sferrati dalle istituzioni statunitensi.
Gli Stati Uniti stanno combattendo una guerra non solo domestica contro la tecnologia 5G sviluppata da Huawei, che essi considerano una vera e propria minaccia alla sicurezza nazionale in quanto costituirebbe una sorta di “cavallo di troia” della Repubblica popolare a fini spionistici. Per questa ragione, il governo americano ha implementato una serie di sanzioni che colpiscono soprattutto Huawei, non solo in relazione allo sviluppo del 5G ma più in generale nella produzione di dispositivi mobili. A causa di queste sanzioni, che tra l’altro hanno indotto Google a interrompere la sua collaborazione con Huawei, l’azienda cinese ha perso il primato mondiale delle vendite di smartphone. Uno dei colpi più duri è stato l’aver inserito Huawei in una “lista nera” di aziende a cui è vietato vendere microchip realizzati con tecnologia statunitense, se non su concessione di una apposita licenza rilasciata dallo Stato americano. Tra le aziende che usano tecnologie americane per lo sviluppo di microchip c’è anche la taiwanese TSMC, dalla quale Huawei si rifornisce per la gran parte dei propri prodotti.
Lo scorso 9 dicembre, Huawei e la rivale Oppo hanno annunciato un accordo di licenze incrociate sulle tecnologie brevettate essenziali per la realizzazione di dispositivi mobili, incluso il 5G. Questo accordo segue la decisione di incrementare le royalty richieste dall’azienda cinese per le licenze d’uso per i suoi brevetti che coprono standard essenziali nel campo della telefonia. Il piano di Huawei è quindi quello di contenere le perdite per il calo delle vendite causato dalle sanzioni, compensandolo con i profitti derivanti dalle royalty corrisposte per l’uso delle sue invenzioni da parte degli altri operatori del settore che, almeno per ora, non sono oggetto delle restrizioni imposte dagli USA o non sono stati colpiti altrettanto duramente.