Articolo pubblicato in Bugnion News n.27 (Marzo 2018)
La presenza di prodotti originali offerti in vendita da soggetti terzi sulle varie piattaforme di commercio elettronico (quali amazon, e-bay, alibaba, ecc…) rappresenta un fenomeno sempre più diffuso verso il quale le aziende si sentono spesso indifese.
Ci si può imbattere in semplici trader che si procurano i prodotti solo una volta ricevuto l’ordine dal cliente (c.d. “pure players”), così come nel distributore che o attraverso il proprio sito o attraverso marketplace di terzi, offre in vendita i prodotti del fornitore.
Stiamo parlando – lo ripetiamo a scanso di equivoci – di prodotti originali, non contraffatti.
Per capire se l’azienda possa impedire questo commercio e come, bisogna partire prima di tutto da alcuni principi posti a difesa della libertà economica dei soggetti terzi e del libero commercio dei prodotti.
Il primo: occorre prendere atto una volta per tutte che Internet rappresenta un canale commerciale del tutto lecito. Impedirne l’utilizzo oppure limitarlo prevedendo un’autorizzazione preventiva costituisce una restrizione della concorrenza contraria all’art. 101 TFUE (Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea). Una clausola del contratto di distribuzione o di vendita che stabilisse questo sarebbe pertanto nulla.
Va aggiunto che la vendita attraverso un sito internet, di per sé, non costituisce un metodo screditante del marchio anche nel caso riguardi prodotti di lusso.
Inoltre occorre considerare che il legislatore comunitario, nel caso di accordi verticali (come quelli tra fornitore e distributore), vieta di imporre restrizioni alle vendite c.d. “passive”, ossia realizzate a fronte di ordini non sollecitati. E questo a prescindere dal canale distributivo.
Ne consegue che il fornitore non può impedire al proprio distributore che riceve un ordine da un cliente che non risiede nel proprio territorio di competenza, di evaderlo.
Sempre in applicazione di questo principio, sono illegittime le clausole che prevedono l’impossibilità per il distributore di visualizzare il sito in un territorio diverso da quello contrattuale o che impediscono l’uso, nel sito, di una lingua diversa da quella del territorio di competenza. Tali clausole, infatti, indirettamente limitano o escludono la possibilità di vendite passive!
Il secondo principio da considerare è quello dell’esaurimento del diritto di esclusiva secondo il quale il titolare del marchio non può, una volta che ha venduto il proprio prodotto o direttamente o attraverso il proprio licenziatario, impedirne l’ulteriore commercializzazione (alias: “vendita”). In caso contrario ne deriverebbe un danno alla libertà economica e una limitazione inaccettabile alla circolazione dei prodotti.
Il terzo aspetto che assume rilevanza per l’argomento in questione è costituito dal fatto che l’azienda produttrice non può impedire ad un soggetto terzo di utilizzare il marchio a scopo pubblicitario se per l’appunto vende prodotti dell’azienda e nel rispetto delle regole di correttezza professionale. Se gli fosse precluso l’utilizzo del marchio al terzo risulterebbe di fatto impedita l’attività di vendita.
Se, riassumendo, l’azienda non può impedire o limitare la vendita in Internet dei propri prodotti e se non può vietare l’uso del proprio marchio da parte del terzo, allora ci si chiede se ci sono realmente strumenti a disposizione dell’azienda per frenare questo fenomeno.
A tale riguardo va tenuto presente che il principio dell’esaurimento si applica solo nell’ambito dell’Unione Europa (o, meglio, dello Spazio Economico Europeo che comprende anche Islanda, Norvegia e Liechtenstein). Ne consegue che se, ad esempio, il prodotto è venduto dall’azienda italiana al proprio cliente cinese o russo e poi da quest’ultimo rivenduto in Europa, l’azienda è legittimata a vietarne la vendita.
Inoltre, affinché operi tale principio, occorre che il prodotto sia venduto integro, ossia non manomesso o alterato (come ad esempio sarebbe se venisse rimossa l’etichetta oppure l’ologramma anticontraffazione). Sussiste in tal caso un motivo legittimo affinchè il titolare del marchio si opponga all’ulteriore commercializzazione del proprio prodotto. A volte l’alterazione del prodotto è riscontrabile già esaminando la foto pubblicata con l’inserzione; più spesso si rende necessario procedere con l’acquisto del prodotto per accertarne l’integrità.
Inoltre se il soggetto che vende il prodotto dell’azienda usa il marchio della stessa con modalità tali da danneggiare l’immagine e il prestigio del brand o comunque non conformi ai principi della correttezza professionale (art. 12.1 c.p.i.), l’azienda è legittimata ad intervenire per impedire tale utilizzo. A tale riguardo si possono presentare numerosi casi di “concorrenza sleale”: ad esempio, le vendite civetta (quantità minima di prodotti originali che vengono presto esauriti per poi invitare l’utente ad acquistare prodotti di altre marche) oppure uso, senza autorizzazione, di materiale protetto dal diritto d’autore.
Nei casi sopra citati si tratta di comportamenti dei soggetti coinvolti che, in base alla normativa, costituiscono un illecito di contraffazione di marchio piuttosto che di concorrenza sleale.
Ma per un reale controllo dei propri prodotti venduti in Internet è l’azienda stessa che deve attivarsi per predisporre un sistema di distribuzione quanto più possibile “regolamentato” che preveda dei meccanismi sanzionatori in caso di violazione e che funga, di conseguenza, da deterrente.
Il primo passo in tale direzione è scegliere distributori affidabili individuati in base a precisi criteri qualitativi.
Ma ciò non basta: occorre che siano chiaramente esplicitati nel contratto gli obblighi del distributore o licenziatario nell’ambiente del commercio elettronico e di Internet in generale. È quasi certo che contratti di distribuzione o di licenza risalenti nel tempo debbano essere completamente ripensati e riscritti alla luce delle nuove esigenze in modo da contrastare ad esempio il fenomeno del mercato parallelo ed evitare utilizzi del marchio non coerenti con l’immagine faticosamente conquistata dal fornitore / licenziante grazie agli investimenti in pubblicità e in comunicazione. È bene quindi regolamentare le modalità che il distributore o il licenziatario deve seguire nella presentazione del prodotto in linea con il messaggio che il brand deve trasmettere ai consumatori.
Inoltre, se, da una parte, i distributori non possono essere sottoposti a limitazioni relativamente agli utenti (consumatori) finali a cui possono vendere, dall’altra il fornitore può esigere il rispetto di standard qualitativi in relazione all’uso di siti Internet per la rivendita dei suoi beni.
Soprattutto in presenza di un sistema di distribuzione selettiva, l’azienda può imporre che i clienti non entrino nel sito del distributore attraverso un sito recante il nome o il logo della piattaforma di terzi.
A tale riguardo recentemente la Corte di Giustizia europea (sentenza del 6 dicembre 2017, causa C-230/16) ha stabilito che è perfettamente lecita una clausola contrattuale “che vieta ai distributori autorizzati di un sistema di distribuzione selettiva di prodotti di lusso finalizzato, primariamente, a salvaguardare l’immagine di lusso di tali prodotti, di servirsi in maniera riconoscibile di piattaforme terze per la vendita a mezzo Internet dei prodotti oggetto del contratto, qualora tale clausola sia diretta a salvaguardare l’immagine di lusso di detti prodotti, sia stabilita indistintamente e applicata in modo non discriminatorio, e sia proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare” (nel caso da cui è scaturita la sentenza della Corte, la “piattaforma terza” era il sito tedesco di Amazon mentre il titolare del marchio che agiva era la ditta tedesca di cosmetica Coty Prestige).
Per i prodotti della moda è bene prevedere la gestione dello stock di merce alla fine della stagione, ad esempio, obbligando il distributore a riconsegnare la merce al fornitore. In ogni caso, occorre evitare che sia il distributore a gestire in autonomia lo smaltimento delle giacenze (l’obiettivo è evidente: evitare l’“infedeltà” del distributore).
In conclusione, l’invito rivolto alle aziende è quello di ripensare la propria rete di vendita e di rivedere i rapporti da un punto di vista contrattuale per adeguarli alla “rivoluzione digitale” già avvenuta.
© BUGNION S.p.A. – Marzo 2018