Come tutti sanno, il Regolamento sui disegni o modelli comunitari (6/2002) contiene una poco simpatica disposizione (art. 36.6) che prevede che l’indicazione del prodotto al quale il modello è destinato ad essere incorporato o è destinato ad essere applicato, non influisce sulla portata della protezione dello stesso.
Evidente paradosso normativo, se pensiamo che l’indicazione del prodotto è indispensabile per determinare chi sia l'”utilizzatore informato” ex art. 6 del citato Regolamento, l'”autore” del modello ex art 6.1 oltre che il suo “margine di libertà” ex art 6.2, gli “ambienti specializzati del settore interessato” ex art 7.1, oltre che la “normale utilizzazione” ex art. 4.2.a, la “visibilità” ex art. 4.2.b e l'”utilizzatore finale” ex art. 4.3: tutti parametri imprescindibili per determinare la validità e portata del modello e che devono necessariamente fare riferimento ad una data categoria merceologica per potere essere contestualizzati.
La banalità aiuta a comprendere il mio dubbio: un cioccolatino a forma di pallone da calcio (depositato come modello e rivendicante come prodotto “cioccolatini”) potrebbe ben essere nuovo ed avere carattere individuale se contestualizzato nell’ambiente, appunto, dei cioccolatini, mentre sicuramente sarebbe carente di tali requisiti se le valutazioni precedenti venissero fatte in assoluto: di palloni da calcio (soprattutto in Italia) è da tempo che se ne vedono parecchi!
D’altronde, la trasposizione di settore merceologico di una determinata forma costituisce proprio l’essenza di certi design: forme che sarebbero banali nel settore in cui sono nate, potrebbero ben essere molto originali in contesti diametralmente differenti.
La Corte di Giustizia non la pensa però così! Infatti nella sentenza del 21 settembre 2017 (cause riunite C‑361/15 P e C‑405/15 P – Easy Sanitary Solutions/ Group Nivelles e EUIPO), la stessa ha affermato (punto 96) che “un disegno o modello comunitario non può essere considerato nuovo […] se un disegno o modello identico è stato divulgato al pubblico prima delle date specificate in tale disposizione, anche ove tale disegno o modello anteriore fosse destinato ad essere incorporato in un prodotto diverso oppure ad essere applicato a quest’ultimo“.
Prosegue la Corte al punto 99 affermando che “Pertanto, emerge dal testo dell’articolo 7, paragrafo 1, primo periodo, del regolamento n. 6/2002, che tale disposizione subordina l’esistenza della divulgazione al pubblico soltanto alle modalità materiali di tale divulgazione e non al prodotto in cui il disegno o modello è destinato a essere incorporato o applicato“.
La Corte considera la parte di norma che richiede che la divulgazione debba essere conoscibile nel corso della normale attività commerciale da parte degli ambienti specializzati comunitari, come “eccezione” alla “regola generale”. In quanto “eccezione”, dovrà essere interpretata restrittivamente. Segnatamente la Corte afferma che “tale disposizione (l’art. 7 del Regolamento 6/2002) pone la regola secondo cui il verificarsi di uno qualunque dei fatti ivi menzionati costituisce una divulgazione al pubblico di un disegno o modello” per proseguire poi affermando che “tale regola conosce un’eccezione qualora, nel corso della normale attività commerciale, i fatti dedotti per sostenere che vi sia stata divulgazione non potessero essere ragionevolmente conosciuti negli ambienti specializzati del settore interessato, operanti nell’Unione. I termini «ambienti specializzati del settore interessato» sono utilizzati solo nell’ambito di un’eccezione e devono quindi essere interpretati in maniera restrittiva” (punto 100).
Tornando al nostro esempio di fantasia ed applicando la rigida interpretazione della Corte, dobbiamo ritenere che, essendo ragionevole presumere che gli operatori del settore della confetteria (a questo punto anche al di fuori della loro “normale attività commerciale”) abbiano avuto occasione di vedere, anche solo occasionalmente, una partita di calcio o una foto che ritragga un calciatore e, conseguentemente, un pallone (di cuoio), la pralina o cioccolatino a forma di pallone non è nuova, e conseguentemente il relativo design è nullo….giusto?! A me non pare che questa sia la ratiosottesa alle norme sul design, ma m’inchino a quanto afferma la Corte di giustizia, e di mala voglia mi adeguo.
Devo dedurre, quindi, che per determinare la validità di un design non sia sufficiente fare riferimento a quanto presente nel settore di riferimento, ma novità (e carattere individuale) devono essere considerati in assoluto.
In realtà, per il carattere individuale il discorso torna ad essere razionale, in quanto la norma richiede che per determinare lo stesso occorra prendere come parametro l'”utilizzatore informato”, ma, paradossalmente, sarà concretamente poco probabile che si debba giungere ad effettuare il test di individualità, in quanto è quasi impossibile che una forma non sia presente in assoluto in natura, nell’industria od in commercio in qualsiasi settore, con la conseguenza che il test di novità, che deve essere condotto seguendo questo rigorosissimo criterio, bloccherà spesso la possibilità di svolgere il test di individualità.
Questi sono i criteri che la Corte detta per determinare la validità di un design, ma cosa dice la Corte stessa quando occorre considerare la contraffazione?
In questo caso l’art. 10 del Regolamento 6/2002 prevede che la protezione si estenda a “qualsiasi disegno o modello che non produca nell’utilizzatore informato un’impressione generale diversa“. La norma richiede, pertanto, che occorra fare riferimento all'”utilizzatore informato“: in quanto “informato” lo sarà relativamente ad un determinato settore, non essendo possibile essere informati su tutto. Ma come determinare quel settore? Abbiamo visto che l’art. 36.6 è categorico nell’affermare che “le informazioni di cui al paragrafo 2 e al paragrafo 3 lettere a) e d) non influiscono sulla portata della protezione del disegno o modello in quanto tale“: la norma si riferisce a “indicazione del prodotto” (paragrafo 2), “descrizione” (paragrafo 3, lettera a) e “classificazione dei prodotti” (paragrafo 3 lettera d), quindi, aimè, ogni indicazione presente nel registro che potrebbe essere utile a contestualizzare i disegni depositati come modello, non ci può tornare utile in questo caso.
Già in passato la Divisione di Cancellazione dell’allora UAMI aveva provato a cercare di razionalizzare la cosa, affermando che “a registered design contains an indication of the products in which the design is intended to be incorporated or to which it is intended to be applied. It must be pointed out that this information does not affect the scope of protection of the design as such. However, the goods or services for which a design is intended to be incorporated or to which it is intended to be applied is relevant in determining the informed user and the degree of freedom of the designer in developing his design” (Cancellation No 5111 C del 17/07/2015, pagina 4). Tuttavia, seppure apprezzando lo sforzo ermeneutico della Divisione, è da sottolineare che utilizzare l’indicazione del prodotto, anche solo al fine di determinare l’utilizzatore informato ed il suo grado di libertà, è un modo indiretto per attribuire alla stessa un ruolo nel determinare la portata di protezione del design….cosa vietatissima dal testo normativo: dura lex sed lex.
Quindi a cosa ci si deve riferire per determinare di quale settore debba essere informato l’utilizzatore?
Non mi si dica che dobbiamo rimetterci a quanto affermano le parti … anche perché nessuno è così ingenuo da ritenere che le parti preferiscano affermare il vero, piuttosto ciò che sia confacente ai propri interessi.
Ma anche a volere confidare nell’incorruttibile onestà delle parti, ricordiamoci che le stesse affermano ufficialmente qualcosa solo se dovesse esserci un contenzioso, ma, a mio avviso, anche se questo contenzioso non ci fosse, i terzi dovrebbero comunque essere messi nelle condizioni di valutare la validità dei design. E poi, anche nel caso in cui ci fosse un contenzioso, mi pare pretendere troppo nel chiedere che terze parti, esterne alla vertenza, per comprendere la portata del design, siano onerate di indagare gli atti di causa … no…non può essere così….
….e invece non siamo lontani dalla soluzione.
La Corte Generale, nella sentenza T-90/16 (Murphy v EUIPO – Nike Innovate) afferma, nell’ordine, che “the contested design had been registered for ‘measuring instruments, apparatus and devices’ but that it appeared that that design consisted of an electronic wristband” (punto 8), quindi avvalla la tesi adottata dal Board of Appeal nel caso in questione, secondo la quale, non solo l’indicazione del prodotto non influisce sulla portata della protezione del disegno, ma addirittura può essere disattesa. Nel caso trattato, il design era registrato per “apparecchi di misurazione“, ma “sembrava” un “braccialetto elettronico“…pertanto è stato considerato tale (!!!).
In secondo luogo, al punto 34, la Corte afferma anche che “The applicant does not dispute that the product to which the contested design applies consists of an electronic wristband. He also does not dispute the Board of Appeal’s findings, set out in paragraph 8 above, relating to the informed user who must be taken into consideration in the present case and that user’s level of attention“: quindi, visto che il richiedente non contesta quanto sostenuto dal BoA relativamente all’identità del prodotto ed all’utilizzatore informato, si considerano valide le deduzioni del Board of Appeal. A dir poco incredibile! Per contestualizzare il design non basta guardare cosa afferma l’applicant (eventualmente anche in una memoria nel contesto di un contenzioso), ma bisogna verificare se l’Organo decidente ha fatto delle affermazioni utili a tale contestualizzazione e, nel ricorso contro la decisione di quest’Organo (ossia in una fase procedimentale successiva), il richiedente, appellando la decisione o la sentenza, non le ha contestate … non c’è che dire, i terzi estranei al contenzioso hanno un bel lavoro da fare per capire quanto possa essere ampia la protezione di un design! Diciamo che il principio della conoscibilità da parte dei terzi non è stato quello maggiormente considerato dal legislatore e dalle corti che si sono pronunciate su questa materia!
Ma il bello non finisce qua!
Fino ad ora almeno un punto fermo c’era, ed erano le viste depositate con la richiesta di registrazione del design. In un contesto in cui la descrizione, l’indicazione del prodotto e la classificazione non potevano essere utili a contestualizzare il modello, rimanevano a baluardo dell’identificatine della tutela del design almeno le viste depositate: unico dato oggettivo, ripeto, utile ai terzi, per capire con quel numero di registrazione che cosa fosse protetto.
Ebbene, anche queste possono essere superate!
Non ci credete?
Leggete cosa dice la Corte al paragrafo 53 della citata sentenza (T-90/16): “it is possible to take into account, in order to compare designs, the products actually marketed and corresponding to those designs” (affermazione che ha tristemente dei precedenti: sentenza C-281/10, PepsiCo v Grupo Promer Mon Graphic paragrafi 73 e 74).
Se è così però vorrei sapere, al fine di definire il design, a quale momento storico ci si debba riferire. La Corte afferma che è corretto riferirsi ai prodotti “actually marketed” (ossia effettivamente commercializzati) e corrispondenti al design. In considerazione del fatto che la veste grafica che ha un prodotto in commercio può cambiare nel tempo, è indispensabile fare riferimento ad un momento temporale preciso. “Actually marketed” vuol quindi dire che occorre riferirsi a come il prodotto era effettivamente in commercio al momento del deposito dell’atto che faceva sorgere il contenzioso? In base al principio tempus regit actum, mi parrebbe la soluzione meno errata. Oppure occorre riferirsi ad un momento successivo?
E poi, anche fosse corretto riferirsi al momento iniziale di una vertenza, non dimentichiamo che un design comunitario ha una durata che può estendersi sino a 25 anni, il ché significa che se devo valutare il design in una controversia che si instaura nei primi anni dal deposito del design, potrei definire lo stesso in modo diverso da come verrebbe considerato, se il “tempus” di valutazione fosse un momento storico determinato da una seconda vertenza, che si collocasse una ventina di anni dopo: in vent’anni le forme possono cambiare e, considerando che per comprendere la portata del design “it was not wrong […] to take account of the products actually marketed and corresponding to those designs” la protezione che posso avere del mio design sarà mutevole nel tempo…..non so a voi, ma a me la cosa pare un po’ irrazionale!
Irrazionalità che si accentua ulteriormente se consideriamo che la conclusione tratta nella sentenza Easy Sanitary Solutions (cause riunite C‑361/15 P e C‑405/15 P) trae le mosse dall’interpretazione (non condivisibile) di un testo normativo, mentre quello che viene detto nella sentenza T-90/16non ha alcuna base normativa, anzi, a voler essere polemici, contribuisce a togliere valenza al testo normativo stesso.
Questa analisi mi porta a chiedermi se l’organo giudiziario che ha pronunciato le sentenze di cui sopra sia il medesimo che il 19 giugno 2012 ha pronunciato la sentenza C-307/10, meglio nota come “IP Translator”. È vero che questa concerne i marchi e non i design, è vero che fu pronunciata dalla Corte e non dal Tribunale, ma il principio ivi affermato era quello che nulla ostava “all’impiego delle indicazioni generali dei titoli delle classi [di Nizza] purché siffatta identificazione [fosse] sufficientemente chiara e precisa“.
In ogni caso, anche lo stesso Tribunale pochi anni prima (il 30 settembre 2014, nella sentenza T‑51/12, al punto 29) aveva distinto tra “principle of the protection of legitimate expectations, which protects applicants for Community trade marks” e “principle of legal certainty, which protects the interest of the public – and not only that of trade mark proprietors – in the possibility of establishing with certainty the scope of the protection conferred by earlier registrations” e quindi lo stesso Tribunale riconosceva la supremazia dell’interesse della certezza giuridica e della conoscibilità, non certo attuabili se si consente di guardare come un design è “actually marketed” per comprenderne la portata di protezione.
Mi viene da chiedermi se il legislatore che ha emanato il regolamento 6/2002 sia il medesimo che ha emanato il regolamento 2017/1001 (già 2015/2424), che prevede nel suo 28° considerando che “i prodotti e servizi per i quali si chiede la protezione garantita dal marchio d’impresa siano identificati dal richiedente con sufficiente chiarezza e precisione per consentire alle autorità competenti e agli operatori economici, sulla base della sola domanda, di determinare l’estensione della protezione“. Legislatore che, in nome della certezza giuridica, con l’art. 33.8 di tale Regolamento (meglio noto come il “terribile articolo 28.8”, del regolamento 2015/2424) ha costretto tutti i soggetti che nel corso di sedici anni (quelli che vanno dal 1996, nascita del marchio comunitario, al 2012, sentenza “IP Transator”) avevano depositato marchi comunitari, a modificare la propria lista prodotti al fine di conformarla ai nuovi precetti di “chiarezza e precisione“.
Mi chiedo, poi, se quel legislatore che ha previsto che gli elementi contenuti nel certificato di registrazione del modello non contino assolutamente niente ai fini della determinazione dell’estensione di protezione, sia il medesimo che come incipit del Regolamento 2017/1001 ha introdotto un articolo, il 4.2, che prevede che sono atti ad essere marchi europei quelli idonei ad essere rappresentati nel registro “in modo da consentire alle autorità competenti e al pubblico di determinare in modo chiaro e preciso l’oggetto della protezione“.
Mi viene infine da chiedermi se l’Ufficio che amministra i modelli comunitari non sia il medesimo che, nell’amministrare i marchi europei, ha promosso la disposizione di cui sopra con il tanto giusto, quanto scomodo, principio WYSIWYG (What you see is what you get). Principio che, al fine di cercare di eliminare (o quantomeno di limitare) ogni soggettività nella definizione dell’ambito di protezione del marchio dell’Unione Europea, prevede che la tutela che il titolare può auspicare sia determinata solo ed esclusivamente da quanto (marchio ed elencazione merceologica) sia a tutti possibile vedere sul registro.
Il dubbio mi viene perché mi domando come mai se per il marchio europeo la protezione è (giustamente) strettamente circoscritta a quanto, non solo “le autorità“, ma soprattutto gli “operatori economici” (ossia quelli che prima ho chiamato “terzi”) possano vedere sul registro, per il modello comunitario il legislatore ha previsto che quanto scritto sul registro (l’indicazione del prodotto) non sia utile a determinare l’estensione della protezione e la giurisprudenza ha sancito che nemmeno le immagini depositate lo sono, in quanto è possibile prendere in considerazione il prodotto come “actually marketed“.
Concludo condividendo, con le poche persone che avranno avuto voglia di leggere queste righe, la mia idea che sia necessaria una riforma del Regolamento design che, come avvenuto per i marchi, incentri l’estensione della protezione del modello solo ed esclusivamente sui dati fruibili dal registro, dando un senso (non meramente amministrativo) alla indicazione del prodotto e limitando l’estensione della protezione alle sole immagini disponibili sul registro medesimo: se questo avviene per il marchio, che, come ben sappiamo, è passibile di essere percepito non solo visivamente, ma anche foneticamente e concettualmente, a maggior ragione lo deve essere per il modello, per il quale la tutela si incentra esclusivamente sull’aspetto visivo e per il quale è indispensabile individuare senza soggettivismi di sorta il contesto merceologico in cui questo si colloca.
© BUGNION S.p.A. – Gennaio 2019