Autore: Maria Rovero

Come conciliarle con il regime dei marchi?

Articolo pubblicato in Bugnion News n.14 (Gennaio 2016)

Il 6 ottobre 2015 il Parlamento Europeo approvando con una maggioranza considerevole la risoluzione per l’estensione della disciplina delle indicazioni geografiche ai prodotti non agroalimentari[1], ha ancora una volta evidenziato il generale favore di cui godono DOC, DOGC e simili presso il vecchio continente. Marmo di Carrara, ceramiche di Deruta, cristalli di Boemia e innumerevoli altri prodotti saranno presto soggetti ad un nuovo regime di tutela. La risoluzione si propone infatti di preservare e sviluppare tradizionali tecniche produttive, know-how, incrementare trasparenza e tracciabilità dei beni, promuovere il patrimonio storico e culturale regionale sulla scia dei risultati positivi ottenuti dalle indicazioni geografiche esistenti.

La necessità di allinearsi alle obbligazioni internazionali[2], i benefici economici e sociali, quelli relativi alla trasparenza informativa nonché le importanti reti di collaborazione tra produttori ottenute dal regime delle indicazioni geografiche esistenti, hanno portato a ritenere opportuno e ragionevole estendere la vigente disciplina fino a ricomprendere qualsiasi tipologia di prodotto la cui notorietà, le cui caratteristiche o qualità siano considerate “essenzialmente attribuibili” al territorio di origine.
La ratio legis è chiara e condivisibile, ma tutto questo come si concilia con eventuali marchi? Non esiste una risposta univoca a questa domanda, in particolare non è chiaro quali norme di risoluzione dei conflitti debbano essere applicate in materia. La speranza è che il regolamento attualmente in cantiere si occupi definitivamente di stabilire essenziali principi a riguardo.

La problematicità della coesistenza è evidente nel caso riguardante la Contea di Waterford, da secoli rinomata per la produzione di pregiati cristalli. In tempi recenti, un fondo di private equity statunitense ha acquistato il marchio “Waterford Crystal”, registrato presso l’OHIM[3], e ha in seguito delocalizzato la produzione dei cristalli in Est Europa. Le polemiche (nonché la richiesta di revoca del marchio[4]) nascono poiché si ritiene che il consumatore sia tratto in inganno, nel momento in cui scegliendo un prodotto accompagnato dal marchio “Waterford Crystal”, e aspettandosi quindi che le sue qualità siano quelle storicamente attribuibili alla tecniche produttive della sua regione di origine, in realtà si trovi di fronte ad un prodotto che non risponde più alle caratteristiche che il marchio evoca.

L’indicazione geografica è uno strumento legale intrinsecamente perfetto per evitare che ciò accada. Protegge infatti quel valore aggiunto che il territorio di origine conferisce al prodotto, un valore che può derivare dalle materie prime stesse come dalle tecniche di produzione.

Non si richiede però, anacronisticamente, che il bene in questione sia interamente prodotto nella regione geografica di origine (Waterford, nell’esempio in questione). Bensì che quelle fasi del procedimento che costituiscono la ragione stessa del legame tra prodotto e territorio, e quindi la ragione della protezione tramite indicazione geografica, rimangano saldamente ancorate alla zona geografica di origine. Nel caso di specie, al fondo statunitense sarebbe concesso l’utilizzo del marchio Waterford solo nel caso in cui gli step produttivi più delicati e sofisticati avessero luogo nella Contea stessa.

Secondo questo schema, il beneficio è evidente per tutte le parti in causa. I proprietari del marchio possono delocalizzare parte della produzione, secondo una logica di mercato spesso imprescindibile. Inoltre, mantenendo parte della produzione nel territorio di origine, possono altresì beneficiare della protezione garantita dalla indicazione geografica, che giova ampiamente alla regione stessa (in particolare per il mantenimento – o ampliamento- dei posti di lavoro e per l’incremento della notorietà della zona). Il consumatore può così essere massimamente informato in relazione alle sue scelte di acquisto, fidandosi sia del marchio che della indicazione geografica.

Nell’attesa che la Corte Europea si pronunci nel merito e sia quindi stabilito un significativo precedente giurisprudenziale, la situazione rimane però incerta, lasciando interrogativi aperti sia per i proprietari di marchi, che per gli interessati alla tutela tramite indicazione geografica, costretti ad interfacciarsi con una disciplina lacunosa. Anche i consumatori trarranno grossi benefici dalla nuova disciplina giacché, come risulta evidente dal caso Waterford, allo stato delle cose non godono di una effettiva garanzia di corretta informazione.

Maria Rovero
[email protected]


[1] Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2015 sulla possibile estensione della protezione delle indicazioni geografiche dell’Unione europea ai prodotti non agricoli 2015/2053(INI).
[2] L’accordo TRIPS non prevede alcuna restrizione in merito alle categorie di prodotti che possono godere di una indicazione geografica : “Ai fini del presente Accordo, per indicazioni geografiche si intendono le indicazioni che identificano un prodotto come originario del territorio di un Membro, o di una regione o località di detto territorio, quando una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica”, Articolo 22 Comma 1, Accordo TRIPS.
[3] Office for Harmonisation of Internal Market.
[4] Da parte di Trade Union Unite.