Articolo pubblicato in Bugnion News n.18 (Settembre 2016)
Si è parlato molto di antitetici costumi da bagno femminili quest’estate.
Scalpore ha suscitato la decisione di alcuni sindaci francesi di bandire dalle proprie spiagge le donne che indossano una tenuta da bagno che copre molta parte del corpo e ne è seguita una polemica planetaria che, con forti contrapposizioni ideologiche e culturali, ha diviso movimenti politici e coscienze.
Ovviamente non è certo questa la sede per addentrarsi in una discussione di questo livello né per esprimere opinioni in merito che, in quanto personali, non interesserebbero a nessuno.
Limitiamoci quindi a prendere con più leggerezza, e con prospettiva da consulente marchi, la questione e notare che la cronaca ha portato alla ribalta una parola fino ad ieri pressoché sconosciuta al grande pubblico: “burkini”.
E’ curioso che la popolarità di questa parola nasca su quella stessa Costa Azzurra dove, solo pochi decenni fa – che oggi sembrano secoli! -, si era affermata un’altra parola che menzionava un altro oggetto di scandalo: “bikini”.
Ma cosa sono queste due parole, dal punto di vista lessicologico e del diritto?
La storia della parola “bikini” è piuttosto nota.
Nel remoto atollo di Bikini, nella Isole Marshall, negli anni fra il 1946 al 1958 gli Stati Uniti condussero esperimenti nucleari. Un sarto francese ideò all’inizio dell’estate del 1946 un rivoluzionario costume da bagno, composto da due pezzi separati, che scopriva una quantità inaudita, per l’epoca e il luogo, di corpo femminile. Valutò che un tale capo di abbigliamento sarebbe stato socialmente dirompente come una bomba atomica. Ecco perché lo chiamo “bikini”.
Possiamo annotare, giusto per la storia, che non aveva visto male Monsieur Réard nel prevedere uno sconquasso perché lo scandalo per tanto osare mostrare fu enorme, l‘indumento fu bandito da molte autorità. Ci vollero molti anni ed alcune “scandalose” foto di BB (Brigitte Bardot) in Costa Azzurra perché il bikini venisse sdoganato ed avesse diritto di accesso sulle spiagge di mezzo mondo.
E per quanto riguarda il Burkini?
Diciamo subito che, scritto con questa grafia dalla nostra stampa, ma nato in realtà nella versione, foneticamente identica, di “Burqini”, è un marchio che la stilista australiana di origine libanese, Aheda Zanetti, ha utilizzato e registrato in Australia e in molti Paesi esteri fra cui l’Unione Europea per “abbigliamento, scarpe, copricapi, compresi costumi da bagno, costumi da bagno con cappuccio, …”.
La creatrice del marchio lo utilizza in relazione ad una tuta di materiale sintetico che copre la più parte del corpo, compresa quasi sempre anche la testa, che ha ideato e produce per dare la possibilità alle donne che, per cultura, obbligo o scelta non vogliono o non possono scoprire il proprio corpo, di nuotare e stare in acqua in modo più confortevole rispetto ad un abbigliamento completo.
Il marchio consiste in una sorta di crasi fra le parole burqa (o burka) e bikini di indubbio effetto suggestivo anche se in realtà del burqa richiama più l’idea che non l’effettiva funzione in quanto non prevede copertura del viso.
Entrambe le parole di cui stiamo parlando sono perciò nomi che un produttore ha dato al proprio prodotto.
Sono cioè dei “marchi” ossia dei beni immateriali che appartengono a chi li ha creati/registrati e in base ai quali il titolare può impedirne l’utilizzo ad altri.
O meglio, nel caso di bikini, esso era un marchio ma non lo è più. Cos’è accaduto?
Le leggi di praticamente tutti i Paesi prevedono sostanzialmente quello che prevede la legge italiana all’art. 13 Codice di Proprietà Industriale : ”il marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua funzione distintiva”.
E’ il cosiddetto fenomeno della “volgarizzazione” del marchio che si verifica quando un marchio non è più percepito dal pubblico come indicativo di una specifica fonte di provenienza del prodotto o servizio ad esso collegato ma come generica indicazione del prodotto o del servizio stesso.
Cosa hanno in comune, ad esempio, una biro, la formica, un abito premaman, il cellophane, le bretelle e la pasta paglia e fieno? Nulla, ovviamente, a parte il fatto che una volta erano dei marchi e sono decaduti da questo status per diventare parole comuni, utilizzabili da chiunque, cosa che infatti tutti noi facciamo abitualmente, compresi anche i concorrenti degli iniziali proprietari di questi nomi. In termini di analisi grammaticale potremmo paradossalmente dire che da nomi propri di cosa si sono trasformati in nomi comuni di cosa.
O, per lo meno, sono diventati nomi comuni in alcuni paesi o giurisdizioni e magari non in altre perché dobbiamo sempre ricordare che i diritti di marchio hanno valenza territoriale e quindi anche il fenomeno della volgarizzazione può aversi in un Paese e non in un altro per un infinito numero di ragioni.
Il caso più famoso di marchio volgarizzato o non volgarizzato a seconda del territorio è probabilmente “Aspirina” che è utilizzabile da qualunque produttore di acido acetilsalicilico negli USA ma solo dalla Bayer in Italia. E, giusto per mostrare come le ragioni di un diverso status in Paesi diversi possono essere infinite, vale la pena di ricordare che la decadenza del brevetto e del marchio Aspirina fu ricompresa fra i danni di guerra imposti alla Germania dai vincitori con il trattato di Versailles nel 1919.
Una famosa sentenza della Corte di Cassazione italiana del 1978 in relazione al marchio cellophane riconosceva che la volgarizzazione “è un fenomeno assai complesso che attiene … alle leggi misteriose cui si deve, appunto, la formazione del linguaggio “.
Paradossalmente quindi più un marchio è di successo e più il suo valore di esclusiva rischia di annullarsi proprio a causa del suo successo.
Non c’è nulla allora che i titolari di marchio possano fare per non perdere un importantissimo asset aziendale?
Certo che no! Non sarà sfuggito che il testo della legge italiana dice che il marchio decade per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare e questo principio è analogo a quello espresso nella maggioranza delle leggi marchi compreso il regolamento sul Marchio dell’Unione Europea.
Ecco che quindi è sempre necessario combattere tutti i tentativi di uso del marchio come termine generico da parte, ovviamente, dei concorrenti ma anche dei distributori, dei pubblicitari, dei media, dei dizionari.
Apporre una ® o altro segno che indichi che il nome è un marchio ogni volta che lo si utilizza sul prodotto o nella comunicazione è il primo passo essenziale da compiere.
A questo vanno aggiunte altre tassative istruzioni da fornire a tutta la filiera commerciale e comunicativa di mai utilizzare il marchio come sostantivo ma solo come aggettivo del nome generico del prodotto, di mai creare sullo stesso verbi o nomi composti o forme plurali o altri neologismi linguistici.
Vanno inoltre, ovviamente, fatte sorveglianze continue a livello internazionale per evidenziare rapidamente e contrastare ogni e qualsiasi atto di terzi che possa portare ad una perdita di capacità distintiva il proprio marchio.
Quando e se poi succede, nonostante tutte le precauzioni prese, che i dizionari inseriscano, correttamente dal loro punto di vista, il marchio fra le parole della lingua nazionale il titolare può ancora chiedere che accanto al nuovo lemma venga indicato che si tratta di un marchio di fabbrica.
Fra i casi famosi di parole introdotte nei dizionari italiani che sono però validi marchi a tutti gli effetti, proprio grazie alla attività del loro titolare, possiamo ricordare Autogrill®, Nutella® o Alcantara® ,tutti rigorosamente con la loro ®!
Tornando quindi all’inizio del nostro ragionamento probabilmente dovremmo correggere il titolo di queste poche note in modo più ‘giuridicamente’ corretto e riformularlo così: Bikini o Burqini ®?
Può nascere poi un’altra domanda, Burqini® riuscirà a mantenere la sua ®?
© BUGNION S.p.A. – Settembre 2016