Quante volte abbiamo visto grandi opere d’arte diventare il soggetto ideale per vendere t-shirt, gadget, giocattoli o simili? Avevamo già parlato negli scorsi mesi del caso della Venere di Botticelli, capolavoro custodito negli Uffizi di Firenze, la cui immagine è stata “sfruttata” (tra gli altri) da brand del calibro di Jean Paul Gaultier e Zara (outfit poi ripreso anche dalla regina degli influencer, Chiara Ferragni).
Ebbene, da Firenze a Venezia il passo è breve, e anche questa volta l’oggetto del contendere tra musei e imprese è un’opera rinomata in tutto il mondo: l’Uomo Vitruviano di Leonardo Da Vinci. Il contesto però passa dal settore moda a quello dei giochi in scatola e nel mirino delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (dove è custodito lo schizzo leonardesco) è finita la Ravensburger, nelle sue due declinazioni societarie: quella italiana (Ravensburger s.r.l.) e quella tedesca (Ravensburger AG, Ravensburger Verlag GmbH).
L’Uomo Vitruviano: cosa rappresenta
L’Uomo Vitruviano è un disegno a inchiostro su carta creato nel 1490 dalla penna di Leonardo Da Vinci. L’opera raffigura un uomo inscritto in un cerchio e in un quadrato e rappresenta le proporzioni ideali di un corpo umano. La scelta delle forme (il cerchio e il quadrato) non è casuale in quanto queste sono da sempre considerate come “figure perfette”: il cerchio simboleggia il cielo e la perfezione divina, il quadrato simboleggia la terra, e l’uomo diventa il trait d’union tra i due mondi.
Gallerie dell’Accademia vs Ravensburger: il caso
Per risalire alla genesi del caso, bisogna andare indietro fino al 2019, quando il Ministero della Cultura e le Gallerie dell’Accademia presentarono un ricorso al tribunale contro Ravensburger per l’utilizzo non autorizzato dell’immagine leonardesca.
Galeotto fu, infatti, il puzzle di 1.000 pezzi creato da Ravensburger nel 2009, che raffigura l’iconico lavoro di Leonardo e per il cui utilizzo la società italo-tedesca non aveva mai pagato alcuna royalty. Almeno fino ad ora, visto che la recente ordinanza del Tribunale di Venezia ha decretato che Ravensburger non potrà più utilizzare tale immagine senza autorizzazione (eliminandone qualsiasi traccia anche sul sito istituzionale e su qualsiasi altro materiale promozionale, telematico e social), obbligando anche la società a risarcire il Ministero della Cultura con una penale di 1.500 Euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione di tale ordinanza.
L’Uomo Vitruviano infatti è sì un bene universale, ma la sua riproduzione deve sempre essere autorizzata (e pagata) al museo/ente che ha in custodia l’opera originale.
A stabilirlo è il Codice dei beni culturali e del paesaggio, che sancisce che le opere d’arte possono essere riprodotte solo previa autorizzazione degli enti pubblici territoriali che le custodiscono, nel pieno rispetto delle leggi sul diritto d’autore. Un diritto che, in questo caso, viene riconosciuto proprio all’ente/museo che espone/detiene l’opera.
Una sentenza storica
Si tratta di un precedente importante, soprattutto per l’Italia: non tanto per la decisione finale, quanto per le sue possibili applicazioni. Per la prima volta, infatti, l’ordinanza del Tribunale di Venezia impone il rispetto del Codice dei beni culturali anche in caso di opere riprodotte all’estero. Ravensburger infatti si era difesa evidenziando il fatto che gli eventuali diritti di immagine si sarebbero dovuti versare solo per i prodotti venduti in Italia (dove il Codice è in vigore), mentre la decisione del giudice trascende la mera giurisdizione italiana ponendo una riflessione più ampia sul tema del copyright e del diritto d’autore in generale.
Ciò apre dunque a nuovi possibili “casus belli”, che potrebbero presto colpire aziende e società di tutto il mondo che in qualche modo sfruttano o hanno sfruttato in modo illecito le opere d’arte custodite nei musei italiani, per trasformarle in gadget, ricordi, souvenir o accessori di moda da rivendere poi al grande pubblico.