Autore: Vieri Canepele

Articolo pubblicato in Bugnion News n.45 (Settembre 2020) – Ascolta la versione Audio

I fatti tragici sono noti: il 25 maggio 2020 l’afroamericano George Floyd è morto durante un controllo effettuato da agenti di polizia a Minneapolis, negli Stati Uniti. Rimangono indimenticabili le sequenze dell’arresto e del soffocamento.

La morte di colui che è diventato un vero e proprio personaggio e simbolo ha sconvolto tutti ed ha scatenato un’ondata di proteste che stanno segnando la recente storia degli Stati Uniti d’America e non solo.

Gli animi si sono accesi perché questo costituisce soltanto l’ultimo di una serie di abusi compiuti in danno della minority afroamericana, che ad oggi rappresenta circa il 14% dell’intera popolazione degli USA.

L’agente che ha immobilizzato Floyd, in maniera tale da impedirgli il respiro, premendo sul collo dell’arrestato il proprio ginocchio (si ricordano le parole di Floyd “I can’t breathe” pronunciate durante la manovra) e successivamente provocarne la morte, è stato licenziato, arrestato e dovrà affrontare un processo per omicidio di secondo grado.

Questa è cronaca, nota quasi a tutti.

Ci sono poi dei risvolti meno noti della vicenda, che interessano il mondo dei marchi, sempre connesso e sensibile alla contemporaneità, in quanto filtrato dall’occhio del consumatore medio.

A seguito del montare della protesta in tutto il mondo, in particolare tra il 5 ed il 6 giugno 2020, il cittadino britannico e imprenditore di Manchester, Regno Unito, Georgios Demetriou, ha depositato 4 marchi in serie tutti aventi ad oggetto l’espressione “Black lives matter” e “I can’t breathe” (in maiuscolo, minuscolo, con un punto esclamativo e con le sole iniziali in maiuscolo) per contraddistinguere prodotti di abbigliamento nella classe 25 e braccialetti (14), nonché servizi legati alla beneficienza (36).

Solamente 11 giorni più tardi, cioè il 17 giugno, il titolare è strato costretto a rinunciare a dette domande di marchio a causa dei numerosissimi commenti di disprezzo, e addirittura minacce di violenza, ricevuti da lui e dai suoi addetti principalmente tramite i social.

Infatti, sono stati centinaia i tweet e retweet che hanno condannato questa iniziativa, che, sulla carta almeno, suonava come un bieco tentativo di sfruttamento del movimento in questione (nonostante la formale designazione di prodotti e servizi a scopo di beneficenza).

Tanto è stato il subbuglio causato da quei depositi che addirittura l’ufficio Marchi inglese è stato costretto a rassicurare l’utenza, confermando che quelle domande sarebbero state oggetto di rigoroso scrutinio regolamentare e che comunque sarebbero anche state benvenute eventuali osservazioni di terzi in merito (!), volendo in un certo senso levarsi d’impiccio (ma senza riuscirci). Infatti la questione si è poi chiusa, in UK, con il ritiro spontaneo da parte di Demetriou, appunto.

Ma l’imprenditore inglese non è stato affatto il primo né il solo ad avere l’idea di depositare come marchio queste espressioni.

E infatti dalla consultazione delle varie banche dati marchi a livello mondiale emergono numerosi depositi aventi ad oggetto l’espressione “Black Lives Matter, riferibili all’ultimo quinquennio.
L’analisi dei file relativi a quelle depositate prima dell’uccisione di George Floyd permette di comprendere meglio quali siano i motivi giuridici fondanti il rifiuto opposto dai vari Uffici Marchi, a prescindere dall’urgenza e opportunità sociale che ha invece spinto Demetriou a rinunciarvi in autonomia.
Che cosa infatti ne sarebbe stato delle domande qualora il titolare non avesse spontaneamente deciso di ritirarle? Sarebbero state approvate o no?

Il quesito è di interesse dato che sono, ad oggi, pendenti circa una ventina di domande di marchio su “Black lives matter”, in tutta Europa. Ce ne sono invece circa una decina aventi ad oggetto l’espressione “ I can’t breathe”.
Una possibile indicazione viene dal dossier (corposo) dell’Ufficio Marchi Statunitense, che, tra il 2015 e il 2016, ha rigettato circa una trentina di domande aventi ad oggetto questa espressione, ritenendo non registrabili espressioni di carattere informativo, promozionale o propagandistico (slogan), poiché inidonee a svolgere la funzione di indicatore di provenienza imprenditoriale, tipica del marchio.
In un rilievo emesso dall’ USPTO, ad esempio, in relazione alla domanda 87156681, l’Ufficio richiama il principio per cui i segni idonei a veicolare semplicemente un’informazione di tipo socio-politico non presentano, viceversa, capacità distintiva, citando anche i precedenti relativi allo slogan ONCE A MARINE ALWAYS A MARINE[1], rigettato in quanto ritenuto percepibile solo come un vecchio e familiare detto dei Marines, oppure a DRIVE SAFELY[2], percepito solo come un consiglio sulla sicurezza. L’Ufficio ha anche sottolineato che quanto più l’espressione è presente nel linguaggio quotidiano, tantomeno questa sarà idonea a svolgere una funzione distintiva, tendendo il consumatore medio ad identificare lo slogan non già con una certa azienda, bensì, in questo caso, con il movimento ed i suoi valori, quali il ripudio della violenza razziale e l’affermazione dei diritti civili. In ultima analisi, secondo l’Ufficio USA, il consumatore sarebbe indotto ad acquistare il prodotto che identifica non già una certa azienda, ma una certa ideologia.
Ideologia fa rima con ‘apologia’ e dunque ci si potrebbero aspettare, a fondamento di tali rigetti, anche alcune argomentazioni riferite alla violazione di norme di ordine pubblico e buon costume, limiti imperativi dell’ordinamento, anche italiano, inderogabili anche in sede di registrazione del marchio.
Detti motivi sono previsti a livello nazionale dall’articolo 14 Codice della Proprietà industriale ed a livello europeo dall’articolo 7.1(f) Reg. 1001/2017.
Per fare un esempio, la Divisione di annullamento dell’Ufficio Marchi UE (caso n. 20 461 C, del 20 gennaio 2020) ha ritenuto il marchio

 

 

contrario al buon costume, in relazione a questo segno,

 

 

corrispondente alla Parteiadler, l’aquila del partito nazista.

 

Ma il riferimento all’ordine pubblico pare quantomeno scivoloso, in quanto potrebbe portare ad esiti diversi a seconda del colore o del tipo di ideologia richiamata, con evidenti discriminazioni, oppure, ancora peggio, a ritenere nulli o non registrabili dei marchi costituiti da espressioni che richiamano dei trend sociali del momento quando questi risultano associati a movimenti o manifestazioni di massa, sulla carta tutti idonei a porre questioni di ordine pubblico.
In ogni caso, sarà interessante seguire il corso delle domande di marchio ad oggi pendenti dinanzi svariati Uffici europei per comprendere se le autorità statali (e l’EUIPO) ritengono – e se si per quali motivi – di voler negare in blocco la registrabilità di ‘Black lives matter’ o ‘I can’t breathe’, rivendicando  – forse solo a tempo? – il ruolo della collettività ed il loro libero utilizzo.

© BUGNION S.p.A. – Settembre 2020

 

 

 

 

[1] In Re Eagle Crest Inc., USPQ 2nd, 1227, 1229-31 (TTAB 2010)

[2] In Re Volvo Cars N. Am. Inc., 46 USPQ2d, 1455, 1460-61 (TTAB 1998)